21/3 POSTUMIA

Paolo Biondo

Gino Antonelli: Liutaio Poeta e Pittore.

L'arte, espressa in tutte le sue forme, non ha età e confini, soprattutto quando è raccontata con semplicità e una carica emotiva che non tralascia, anzi esalta, pur la minima sfumatura. Una considerazione, questa, che ben si abbina al patrimonio intellettuale e artistico, nonché alla capacità creativa di un personaggio quale Gino Antonelli.
I suoi novant'anni sono, invero, assistiti da una memoria ferrea e da una irrefrenabile voglia di fare e di stupire; la stessa che, bambino, lo portava ad esprimere il suo talento attraverso la creazione di oggetti che solo una persona esperta sapeva realizzare.
Il rivaltese E' un artefice a trecentosessanta gradi (perché in tutto ciò ha fatto sin qua, mobili, quadri, murales, poesie, violini e riproduzioni in gesso o ceramica, prevalente è senza dubbio la creatività), ed è un uomo semplice, di poche parole; predilige far parlare le sue opere.
Anche le sue scelte di vita indicano in lui una persona concreta che sa dare un valore soprattutto a elementi come la famiglia che, dai genitori, ai fratelli, dalla moglie Elvira, ai figli, Cesarina e Sergio, e alla nipote Monica, hanno svolto e svolgono per lui il ruolo di principale punto di riferimento.

I coniugi Giacomo Cesare Antonelli e Maffizzoni Flaminia nell'anno 1937.

GIACOMO CESARE ANTONELLI E MAFFIZZONI FLAMINIA, PADRE E MADRE DEI FRATELLI ANTONELLI


L'abitazione, ad esempio, che condivide con la moglie e con il figlio, sebbene diversa dal "Palazzone" dei Motta, a Grazie di Curtatone, dove egli nacque il 24 Gennaio 1920, sa esprimere la stessa carica emotiva che c'è in lui.
Suo padre, Giacomo Cesare Antonelli, era il "Frerin d'le Grasie", il fabbro maniscalco con bottega in villa Cantona, sulla strada per Buscoldo.
Nel cortile di casa Antonelli è posto un incudine con martello che, rappresenta l'emblema degli strumenti di lavoro del padre e del fratello.
A questo incudine Gino abbina un aneddoto che racconta con tanto simpatico fervore:
'Un giorno nel laboratorio di mio padre venne il molinaio Bertolucci detto "Marenghin" e insieme a lui vi era il giovane garzone. Il ragazzo Leone Brutomesso, 28 anni di Vicenza, visto l'incudine, scommise con mio padre che sarebbe riuscito ad alzarlo con la sola forza dei denti. Mio padre non ci credette e accettò la sfida, mettendo in palio il carretto e il cavallo che lui usava per il suo lavoro. Il giovane si fece dare una corda e, una volta imbragato l'incudine del peso di 110 chili, lo sollevò con la forza dei denti di almeno una spanna. Forte fu lo stupore di mio padre, che si rese conto di aver perso la scommessa. Egli correttamente disse a Leone che carretto e cavallo erano suoi. Il giovane, invece, non li volle, ricordò a mio padre semplicemente che non bisogna mai fidarsi delle apparenze".
La madre, Flaminia Maffizzoni, invece, da brava e attenta donna di casa con amore e impegno dava certezze di vita al marito e ai quattro figli; al tempo stesso, grazie alle esperienze acquisite, accudiva galline e altri animali da cortile, l'orto e in più era divenuta un'abile ricamatrice.
Il quadro della famiglia Antonelli si completa con le figure dei fratelli Carlo, che ha scelto la professione del caciaio, Guido, che si è affiancato al padre per la gestione del laboratorio di fabbro maniscalco, e Aristea, che come la mamma ha preferito dedicarsi alla casa e alla famiglia.
Gino all'età di quarant'anni si sposta di pochi chilometri e, restando sempre a pochi passi dal Mincio e dal suo affascinante contesto ambientale, che per anni è stato spunto di idee per lui soprattutto come pittore, lascia la cara Villa Cantona per approdare a Rivalta sul Mincio.
Tanto il padre quanto la madre sono per Gino due figure fondamentali per la sua voglia di arte.
Egli, infatti, trova in loro due importanti fonti di sprone e lo ricorda ancora oggi con grande enfasi, insieme al luogo per lui mitico di Villa Cantona. Gino frequenta le classi elementari del piccolo paese mariano arrivando sino alla quarta. Anche su questo passaggio della sua vita c'è un aneddoto che ricorda con affetto: chiamato dalla maestra alla lavagna per far di conto, lui da sfogo alla sua vena artistica e disegna con il gesso dei cavalli.
“I compagni di classe- annota l'artista rivaltese - incuriositi richiamarono l'attenzione della maestra e lei, intelligentemente, non mi sgridò bensì mi invitò a tornare a fare i conti richiesti, sollecitandomi nel contempo a dedicarmi con assiduità al disegno”.
A tredici anni è apprendista falegname dai Camurri e un anno dopo è "promosso" operaio in tutto per tutto; sarà un' esperienza utilissima per tutta la vita lavorativa.
“Ero talmente felice per questo riconoscimento – sottolinea Antonelli – che, per festeggiarlo, ho costruito una tavola, che è ancora esistente e che ho poi regalato a mia mamma come segno di gratitudine per il suo sostegno e il suo grande affetto”.
Gino intuisce come l'esperienza del falegname sia decisiva per dare concretezza all'artista che c'è in lui e fargli comprendere come a lui basti uno sguardo per trarre da un soggetto o da una situazione le emozioni che poi si trasformano in oggetti.
“ Nel 1939 ricordo ancora – prosegue l'Antonelli – ho costruito una credenza che poi ho regalato a mio fratello Carlo”.
E' dalla maestria per l'intaglio e dalla passione per la musica, (per tre anni ha studiato violino e ne ha trascorsi più i cinque con il Quartetto Azzurro – violino, saxofono, fisarmonica e batteria - , insieme a tre musicisti di Buscoldo), che nasce una nuova grande passione, quella della creazione dello strumento a lui tanto caro.
In effetti il primo violino a firma Antonelli è il segno tangibile del suo talento.
Siamo nel 1939, quando egli, quasi per gioco, costruisce un violino e la cosa lo appassiona a tal punto che ne realizza subito altri due. Il luogo dei suoi esperimenti è la corte di Cesare Mozzanega a Rivalta sul Mincio.
E' da li che escono la maggior parte dei suoi "gioielli".
Per qualche anno, quindi, si dedica allo studio del violino, perché capisce che non avrebbe potuto continuare a realizzare strumenti senza conoscere il pentagramma e le caratteristiche più nascoste dei legni e degli archi.
“Un giorno – egli ricorda con un pizzico di orgoglio e di soddisfazione – ho chiesto a un noto maestro liutaio di vendermi un suo violino. Prendilo è tuo fu la sua risposta. In cambio dello strumento gli feci un ritratto. A distanza di anni la moglie del maestro liutaio mi confessò quanto fosse rimasta ammirata dalle mie doti di pittore: avevo reso il consorte più bello di quanto non fosse in realtà!".
Da quel momento ad oggi dal suo laboratorio, sono usciti ottimi strumenti con grande personalità, tra cui violini, viole e violoncelli senza dimenticare il mandolino ed altri ancora.
Grazie alla qualità e alla musicalità di questi oggetti il suo talento ha ottenuto importanti riconoscimenti oltre confine; basti pensare che i violini di Gino Antonelli trovano numerosi estimatori in varie parti del mondo, in particolare nelle Americhe, in Giappone e Corea, e a essere collocato tra i liutai più illustri a livello internazionale. Il pittore-poeta-liutaio rivaltese è solito sottolineare, parlando di questa professione, una cosa molto importante: "Per dare un tocco di classe, per dare una connotazione precisa - spiega Antonelli - a ciò che si è realizzato non bisogna sottovalutare il ruolo della verniciatura. Solitamente studio la miscela delle sostanze che poi si trasformano in quel liquido che, spalmato sul violino - la composizione varia da legno a legno - gli infondono una incredibile modularità del suono. L'altro elemento di primaria importanza per un violino è l'anima, che pongo all'interno dello strumento in una posizione ben precisa. Sbagliare a collocarla vuol dire togliere musicalità e sonorità al violino".
Tanto la verniciatura quanto l'inserimento dell'anima sono operazioni difficili e delicate che vengono fatte ancora oggi a mano e, eseguite a regola d'arte, infondono allo strumento una singolare e quasi incredibile bellezza. Qualche anno dopo l'esperienza maturata in qualità di falegname, egli torna sui banchi di scuola della vicina borgata di Castellucchio per frequentare l'Avviamento industriale, soprattutto per apprendere l'arte del disegno.
E' suo insegnante Carlo Mariani.
“Mi ero appassionato – dice Gino – alla decorazione, insieme alla pittura, e volevo perfezionare entrambe questi aspetti. Da subito il mio professore, Carlo Mariani, mi fece capire che vedeva in me interessanti doti soprattutto sul versante della pittura. Fu lui che mi disse e mi fece comprendere come nella vita l'arte vada vissuta con grande passione e, al tempo stesso, che se non c'è il talento quale valore aggiunto si corre il rischio di fare la fame”
Ma Gino, appunto, di talento ne ha da vendere e chiunque si confronti con lui lo intuisce immediatamente.
E' in quel periodo che don Domenico Bodini, parroco di Castellucchio, che amava l'arte e comprese quante e quali fossero le potenzialità del giovane Antonelli, decise di proporlo all'Accademia Beato Angelico di Milano. Gli esperti di quel prodigioso istituto condivisero le valutazioni del parroco castellucchiese e lasciarono intendere che avrebbe potuto frequentare i corsi allestiti. Purtroppo, però, il periodo poco favorevole, siamo intorno al 1937, costrinse sia don Bodini e sia l'artista rivaltese a rinunciare al trasferimento nel capoluogo lombardo...
La vocazione per l'arte figurativa dapprima lo stimola a seguire un breve corso per decorazione e poi lo fa approdare alla prestigiosa bottega di decorazione di Luigi Leggeri, un insegnante dell' Accademia Cignaroli di Verona. Gino, da garzone, segue il maestro per chiese, palazzi signorili e cappelle votive di tutto il Mantovano e da questa esperienza trae linfa per la sua voglia di esprimere le sue emozioni attraverso il dipinto.
“Solitamente – spiega il maestro rivaltese – prima di realizzare un quadro preparo un modello con il carbone e successivamente arrivo ad eseguire l'opera per intero. Nella stragrande maggioranza dei casi i quadri sono il frutto di un lavoro compiuto sul posto, ma a volte mi è capitato di essere
affascinato da una immagine e poi a memoria di riportarla sulla tela”.
Molti sono i luoghi del Mantovano che sono fonti di ispirazione per l'Antonelli, ma nel suo cuore località quali il Borghetto di Valeggio, Castellaro Lagusello, Grazie di Curtatone e Rivalta sul Mincio, hanno un posto particolare. “Per preparare i colori – continua Antonelli nel citare alcuni aneddoti collegati alla sua passione per la pittura – che poi mi sarebbero serviti per vari quadri ero solito rubare le uova delle galline che accudiva mia madre. Lei, cui nulla sfuggiva, difficilmente mi riprendeva per il gesto compiuto”.
E' poco dopo che decide di mettersi in proprio e che sceglie di fare l'imbianchino; una generazione, quella degli imbianchini mantovani che operano intorno alla metà del Novecento, con spiccate qualità artistiche e grande sensibilità pittorica e coloristica. Per quarant'anni sarà questa la sua professione di riferimento, mentre la passione per la pittura lo porta a ritagliarsi qualche momento della giornata per prendere il cavalletto e la tavolozza con i pennelli e andare alla ricerca di situazioni e paesaggi che lo ispirino. Le sue emozioni visive si trasformano in dipinti, si tratti di uno scorcio di paesaggio, di un volto, di un oggetto e via di questo passo. Come non bastasse Gino Antonelli dedicava la sua attenzione anche ad opere realizzate da altri pittori; opere che lui rielabora e personalizza, inserendo quelle sfumature, quei tocchi particolari che sono tipici di chi, con animo semplice, vuole raccontare emozioni mai assaporate prima.
Proprio per affinare tecnica e naturale propensione alla pittura, Gino Antonelli frequenta nel 1959 lo studio di Alfonso Monfardini.
Cinque sono state le lezioni che il noto pittore mantovano ha impartito all'allievo rivaltese.
L'affiatamento spontaneo con Monfardini favorisce e stimola l'apprendimento del Nostro, tanto che al termine del quinto incontro viene congedato dal vecchio autorevole maestro con una pacca sulle spalle e ben augurante “ora non hai più bisogno di me” Nella sua abitazione di Rivalta su Mincio è raccolta solo la minima parte delle opere realizzate; la stragrande maggioranza di queste si può ammirare in vari contesti, pubblici e privati.
Le icone e i dipinti di natura religiosa si trovano in varie chiese del Mantovano, del Bresciano e del Veronese mentre altri soggetti sono stati realizzati in abitazioni o ville.
“Con simpatia ricordo – afferma Antonelli – che il titolare di un ristorante era solito parlarmi di un tenore famoso che frequentava il suo locale.
Lui desiderava ricordare tale personaggio e allora decisi di creare sul muro della parete della sala da pranzo del ristorante un murales che ritraeva il tenore sul palco durante una delle tante sue esibizioni”.
Gino Antonelli deve la sua fama, oltre che all'arte della liuteria, anche ai tanti ritratti e ai paesaggi, che ha eseguito senza pause per più di cinquant'anni.
“Ricordo che nel 1937 – si addentra instancabile l'Antonelli negli aneddoti legati alla sua vita – chiesi al mio maestro di solfeggio, il violoncellista Wolmer Zamboni, quanto gli dovevo per le lezioni fatte e lui mi rispose che si sentiva ripagato dalla mia bravura. Decisi allora di realizzare, per poi fargliene omaggio, un quadro che ritraeva Shirley Temple. Mentre ancora un giorno mi venne l'ispirazione e feci il ritratto del mio professore, Carlo Mariani. Quando andai a trovarlo per donargli il dipinto mi chiese cosa avrei voluto in cambio e senza indugiare risposi:”la possibilità di fare il ritratto anche alla moglie”. Seppur stupito acconsentì e così ognuno ebbe il proprio quadro”.
La notorietà da parte del grande pubblico aumenta per lui grazie alla scelta di realizzare grandi opere murali (oggi li chiameremmo “murales”) un po' dovunque. L'esordio di questa impresa è del 1943 in un palazzo di San Giorgio di Mantova dove dipinge "Il trionfo della vita" l'ultima grande decorazione la esegue proprio a Corte Mincio nella sua Rivalta, è del 2002 e rappresenta "Gli scavatori di ghiaia al Mincio".
Memorabile davvero è il grande affresco della "Piccola vedetta lombarda", realizzato a Bande di Solferino. “Un giorno venni chiamato dai proprietari del locale – racconta a tale proposito
Antonelli – perchè una porzione della parete manifestava segni di umidità che aggredivano il dipinto. A quel punto suggerii di cambiare tecnica e passare alla realizzazione di un pannello ampio come la parete, ma che avrebbe mantenute inalterate le caratteristiche dell'opera. Convinti della validità di quanto proposto ho realizzato il medesimo quadro su una superficie diversa dal muro e da quel momento non vi fu più bisogno di fare manutenzione al dipinto”.
Altro elemento che arricchisce il patrimonio artistico di Gino Antonelli è quello delle sculture realizzate con il gesso o con la creta.
In particolare l'artista rivierasco ha posto la sua attenzione sui calchi. Stimolato dalla richiesta di un compaesano, Orione Sordelli, ha creato un busto raffigurante questa persona e per giungere al risultato desiderato ha adottato la tecnica del "calco sul soggetto".
In definitiva Gino Antonelli da prima ha realizzato la parte anteriore del soggetto e successivamente quella posteriore, unendo infine le due parti, ha creato così il mezzobusto del richiedente.
Visto i consensi ottenuti ha proseguito e affinato questa tecnica e ad oggi sono una quindicina le opere realizzate.
Infine, non poteva mancare in lui anche una spiccata vena poetica, naturalmente in vernacolo, che applica agli accadimenti del suo quotidiano, della sua vita famigliare e di relazione, ai luoghi e alla gente dei suoi ricordi.
Su questo versante Antonelli non è stato da meno, sul piano della qualità dei toni espressivi e delle emozioni che sapeva raccontare in rima, delle altre forme d'arte proposte.
“Dal 1942 all'80 – evidenzia l'autore – ho avuto l'ispirazione che mi ha portato a scrivere una ventina di poesie in dialetto. Poesie che ricordo tutte a memoria e che raccontano in rima momenti particolari della mia vita quotidiana. Una di queste, ad esempio l'ho dedicata a un bilin. (gioco) che vinsi alla Fiera delle Grazie quando ero piccolo. Si trattava di un semplice fischietto, ma con quel fischietto mi sentivo un'altra persona. Purtroppo provo grande rammarico perché sono anni che non riesco ad avere l'ispirazione per scrivere altre poesie”.
.....................................................................................................................................................................................................................Paolo Biondo


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